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La personalità alimentare food addicted: quando il cibo diventa regolatore emotivo

La personalità alimentare food addicted: quando il cibo diventa regolatore emotivo

Esiste un modo in cui il cibo diventa molto più di nutrimento, più di un piacere occasionale, più di un gesto quotidiano.
Per alcune persone il cibo si trasforma in un rifugio emotivo, un calmante potente, una risposta automatica alle tensioni interne.

È in questo territorio che possiamo parlare di personalità alimentare food addicted: una configurazione psicologica che non coincide necessariamente con un disturbo alimentare diagnosticato, ma che presenta tratti comportamentali, emotivi e relazionali ricorrenti e riconoscibili.

In psicologia sappiamo che le dipendenze non riguardano solo le sostanze.
Già John Bowlby, con la sua teoria dell’attaccamento, e poi le neuroscienze affettive più recenti hanno mostrato come gli esseri umani cerchino regolazione emotiva attraverso elementi esterni quando le risorse interne non sono sufficientemente stabili.

Il cibo, in questo senso, è una delle “regolazioni esterne” più disponibili, socialmente accettate e immediate.

La personalità food addicted si muove proprio su questo asse: un bisogno di sedazione emotiva che si struttura attraverso il cibo, soprattutto quello più ricco di grassi e zuccheri, capace di attivare i circuiti dopaminergici del piacere.
Non si tratta solo di “mangiare troppo”: è una forma di dipendenza comportamentale, più vicina a un tentativo di auto-regolazione che a una semplice mancanza di forza di volontà.

Chi presenta tratti food addicted spesso descrive l’alimentazione come un impulso, non come una scelta.
Non è la classica “golosità”: è una ricerca di sollievo.

Il cibo diventa:

  • un modo per contenere ansia e preoccupazione,

  • una risposta a tensioni relazionali,

  • un tentativo di riempire vissuti di vuoto affettivo.

Mangiare assume la funzione di sedativo accessibile e rapido, una forma di auto-medicazione emotiva che, con il tempo, si consolida in abitudini automatiche.

Le neuroscienze mostrano come l’assunzione di cibi altamente palatabili modifichi i livelli di dopamina e influenzi il ciclo desiderio–ricompensa. È lo stesso schema che troviamo nelle dipendenze comportamentali.
Ma è importante mantenere uno sguardo clinico e umano: dietro ogni dipendenza c’è un tentativo di far fronte a qualcosa. Non è una fragilità di valore, ma una fragilità di strumenti emotivi.

Fame, emozioni e segnali confusi

Nella pratica clinica emerge spesso una difficoltà a riconoscere i segnali interni: fame, sazietà, tensione emotiva, bisogno di contatto.
Molte persone food addicted confondono:

  • lo stress con la fame,

  • la delusione con il bisogno di “qualcosa di buono”,

  • la solitudine con l’impulso a riempire.

Il gesto del mangiare assume allora una funzione relazionale implicita: colmare un vuoto, calmare uno stato di allerta, mettersi al riparo da emozioni percepite come troppo intense o ingestibili.

Un tratto tipico di questa personalità è la forte ambivalenza.
Da un lato il cibo viene ricercato come sollievo; dall’altro genera senso di colpa, vergogna o frustrazione.

Queste emozioni, a loro volta, alimentano il circolo vizioso: ci si sente in colpa per aver mangiato, ci si giudica severamente, aumenta la tensione interna… e il cibo torna a essere la via più rapida per calmarsi.

Spesso si alternano periodi di controllo rigido (diete drastiche, regole severe) e ricadute impulsive, in uno schema che ricorda le dinamiche delle dipendenze classiche: astinenza–ricaduta–senso di fallimento.

Il lavoro terapeutico: non togliere il cibo, ma restituirgli il suo posto

La personalità food addicted mostra quanto il cibo sia un vero e proprio linguaggio emotivo, molto più complesso di quanto siamo abituati a pensare.

Comprenderla significa aprire la porta a un percorso di consapevolezza profonda sul modo in cui:

  • gestiamo le emozioni,

  • viviamo le relazioni,

  • cerchiamo sollievo nella quotidianità.

Esplorare questi aspetti permette di far emergere risorse nascoste, costruire alternative e dare al cibo il posto che merita: nutrimento, non sedativo.

Nel percorso terapeutico con una personalità food addicted si lavora sulla capacità di:

  • riconoscere e nominare le emozioni,

  • individuare i trigger interni ed esterni,

  • sviluppare un vocabolario emotivo più ricco e preciso.

L’obiettivo non è “togliere il cibo”, ma restituirgli la sua funzione naturale.
Una persona food addicted non ha bisogno di essere privata a forza di ciò che la calma, ma accompagnata a costruire forme più mature e funzionali di auto-regolazione: relazioni più sicure, strumenti per gestire l’ansia, modi diversi di affrontare il vuoto.

Riconoscersi in questa personalità alimentare non significa patologizzarsi, ma iniziare a leggere il proprio comportamento in chiave psicologica: la dipendenza non è un fallimento individuale, è un adattamento che può essere compreso e trasformato.